L’Economia del Corriere della Sera -

Ecco le nostre fabbriche Facciamoci un giro

Gli imprenditori del Nord-Ovest, che all’autarchia non credono e l’alta velocità (ferroviaria, dunque green) la vogliono: per non trovarsi sbarrata la porta da/per l’Europa sono persino scesi in piazza. I loro colleghi del Nord-Est, stanchi di essere dipinti in blocco come inquinatori, gente che in testa non ha mai pensieri, valori, idee a volte geniali: solo e soltanto «schei». Le piccole imprese familiari, che così piccole poi — a saperle guardare – non sono: eppure persino chi vive accanto a loro ignora, quasi sempre, di avere per vicini di casa leader mondiali dell’una o dell’altra nicchia di mercato.

I colossi, infine. Per esempio quelli dell’energia, cui per riflesso condizionato assegniamo a prescindere copioni da «brutti, sporchi, cattivi». Ci può stare: ma, eventualmente, ricordiamoci che siamo noi a non sognarci neppure di vivere con il riscaldamento al minimo d’inverno e con l’aria condizionata a palla d’estate, noi a comprare macchine sempre più potenti (e poco ci importa di quanto costa e quanto avvelena l’aria farci «il pieno»), noi a dare talmente per scontata l’elettricità da pensarci solo quando l’interruttore fa click a vuoto.

I flash potrebbero continuare all’infinito. Non cambierebbe il comun denominatore. Questo è un Paese in cui periodicamente, qua e là, le voci del mondo produttivo si alzano a rivendicare una cosa chiamata «orgoglio di fare impresa». Non sono quasi mai uscite dai convegni, però. E oggi, a giudicare da un’agenda politica che ha tirato un tratto di penna su parole tipo «Industria 4.0», non sembrano nemmeno più di moda. La novità è che sono gli stessi imprenditori — grandi, enormi, piccolissimi, medi – a cominciare a rompere qualche schema. Gli italiani non li conoscono, non sanno che cosa (e come) si produce nei loro stabilimenti, spesso per prendere la strada dell’export? Non hanno idea della qualità di cui siamo capaci, né di quanto pulite e «verdi» possano essere le fabbriche un tempo (ieri: era solo il Novecento) regno di grasso, sporco, polveri, amianto? Di come, fosse pur solo per le pressioni del mercato, molte delle risorse destinate alla Ricerca abbiano l’etichetta Ambiente-Ecosostenibilità? Bene. La risposta inizia a essere: presentiamoci direttamente, apriamo le porte, mostriamo in che modo lavoriamo noi e i nostri dipendenti.

L’Open Factory Sunday che L’Economia e ItalyPost hanno organizzato per il 25 novembre nasce così: dalla voglia di una pattuglia (per ora) di imprenditori e manager di far conoscere i loro gruppi, in un rapporto senza mediazioni con il territorio. Non è in assoluto la prima iniziativa di questo genere, ma è la prima che «connette» una rete su ampia scala. Le imprese che partecipano sono una sessantina, in sette regioni: quelli che abbiamo costruito in queste due pagine, e nelle due che pubblicheremo lunedì prossimo, sono i possibili itinerari per una domenica di «cultura manifatturiera». Qualche sorpresa, magari, la riservano.


Milano-Sondrio La via della seta

Il lago di Como, le montagne della Valtellina, lo skyline della Milano capitale mondiale di moda & design e ormai, anche, seconda città turistica d’Italia (con grande dispiacere di Venezia). Però c’è una cosa, cui non si pensa mai. Una particolare declinazione del «bello», tra le tante forme che «bello» assume in quel triangolo. Il viaggio nella cultura manifatturiera del Paese potrebbe dunque iniziare da qui: dalla «via della seta». Nel frattempo è diventata anche altro, molto altro, ma parte pur sempre là dov’era nata nel 1945. Guanzate è il piccolo paese alle porte del capoluogo lariano in cui Antonio Ratti fondò, subito dopo la guerra, l’azienda diventata sinonimo di setificio. Negli anni si è quotata in Borsa, è passata al gruppo Marzotto, è diventata uno dei maggiori player mondiali nelle produzione di tessuti pregiati. È arrivata a sommarne, in archivio, 400 mila. Perciò è tra queste stoffe, appese «a scaffale aperto» nello stabilimento storico, che inizierà il viaggio nel processo di trasformazione di un filo in una cravatta, una camicia, uno dei tanti tessuti che dalla Ratti finiscono alle maison del lusso mondiale.

Idem se, dal lago di Como, si sale fino alle montagne di Sondrio. L’unica differenza è che lassù si lavorano soprattutto lino e cotone, che la fabbrica (Tessuti di Sondrio, altra divisione Marzotto) di anni ne ha 120 e che le abilità artigianali delle origini sono diventate industria senza necessità di diversificare rispetto a quei due filati. Non è un limite, in questo caso, al contrario: è ciò che ha consentito di concentrare il know how a livelli tali che — per esempio, ed è quello che verrà mostrato all’Open Factory Sunday — da un unico tipo di tela bianca di cotone grezzo «i sondriesi» sono in grado tirar fuori una collezione tessile composta da almeno 300 diversi articoli.

E poi, c’è Milano. Infinite possibilità, in quella che rimane la capitale anche della «manifattura Italia», una storia (per ora) a chiudere il triangolo che abbiamo fatto partire dalla «via seta». Anche i profumi, dopotutto, con quel mondo hanno a che fare. Si «indossano», esattamente come un vestito. E, allo stesso modo di un tessuto pregiato, la loro preparazione richiede abilità artigianali (meglio, nello specifico: di naso) che nessun algoritmo è ancora in grado di sostituire. Le «porte aperte», domenica 25, saranno quelle della Grc Parfum. Essenze «sartoriali» e viaggio in tutte le fasi della loro preparazione. Ricerca & Sviluppo, chiaramente, in primo piano.


Vicenza-Padova Design e Palladio

C’erano una volta i caloriferi. Scordateveli. Come chiunque abbia appena messo su casa sa, oggi si chiamano «radiatori» e non servono più solo a riscaldare: sono a tutti gli effetti elementi di arredamento e il design, pure qui, fa la differenza. Scoprire l’intero percorso, se c’è chi lo mostra e lo racconta (in questo caso la Irsap di Arquà Polesine), può essere anche divertente e certo non è difficile. Come non lo è, spostandosi sull’asse Vicenza-Padova, uscire da una fabbrica «total design» (la Lago di Villa del Conte) con le risposte alle curiosità venute in mente magari qualche mese prima, al Salone milanese del Mobile. E certamente la curiosità che verrà appagata sarà quella dei bambini, se i genitori li accompagneranno in due «regni dei colori»: alla Primo-Morocolor di Campodarsego, a vedere come nascono le mille sfumature di pastelli, tempere, acquerelli; al Colorificio San Marco di Marcon, nel veneziano, a «giocare» con pitture e vernici per l’edilizia nel laboratorio organizzato ad hoc. Oppure, perché no, a scoprire la danza dei robot di una fabbrica (la miniGears di Padova) leader nella «micro» meccatronica; o le macchine che (alla Silgan, Romano d’Ezzelino) prendono un pugno di granuli in resina e ne tirano fuori i «triggers», grilletti, detti nelle nostre case semplicemente «spruzzini»; o ancora il processo che fa della Cartotecnica Postumia, a Carmignano sul Brenta, uno dei maggiori produttori mondiali di sacchetti di carta. I genitori di cui sopra potranno a loro volta divertirsi, dopo aver imparato. Forse non sapevano (noi nemmeno) che il padovano è una sorta di polo dei forni superprofessionali: e sia alla Tecnoeka di Borgoricco sia alla Unox di Cadoneghe si partirà con l’hardware (produzione) e si chiuderà con il software (show cooking). Bevande e dessert, nel caso, a San Pietro Musolino, «porte aperte» di The Bridge Bio (e vegan).

Ora, a questo punto del viaggio Open Factory nei territori industriali tra Po, Adige, Brenta, ci sarebbe un problema. Capire cosa fa un’azienda manifatturiera, e come, è facile: basta entrare, osservare, ascoltare. Ma quando quel che si fabbrica sono idee? Le porte da aprire sarebbero quelle delle menti altrui. Si può fare. A Grisignano di Zocco, Vicenza, c’è Considi. Oggetto sociale: consulenza «lean», ovvero come migliorare la competitività sulle linee del Toyota Production-Profit System. Pare complicato. Lo sarà meno di quanto sembra nel laboratorio che simulerà una reale «lean transformation». A Padova, a InovaLab, la questione è effettivamente più complessa: quel che «costruiscono», lì, sono percorsi di innovazione tecnologica. Nei Lab si chiarirà il concetto. L’incontro finale metterà la cornice: non è secondario, decidere se il primo sinonimo di «innovazione» sia «strategia» o «tecnologia».


Verona-Venezia La laguna è tech

La Laguna, San Marco, e ogni singolo canale-rio-calle che contribuisce a fare di Venezia un patrimonio (fragile) dell’umanità. Dall’altra parte: le polemiche sul Mose, sulle Grandi Navi sì o no, sull’eccesso e gli eccessi di un turismo che rischia di asfissiarla del tutto, la Serenissima. Tutte cose che sappiamo. Potrebbero comunque essere argomenti da approfondire — se interessa — nelle «fabbriche» che domenica 25 apriranno a chi sia curioso di sapere come funzionano i perni di una maxi area geo-economica che di «traffico» vive. È traffico di merci e di persone. Via mare, via cielo (oltre che via terra, ovviamente). E questo, tradotto, prima di tutto e più che per autostrade o ferrovie significa: infrastrutture, logistica, organizzazione. Il porto. Gli aeroporti.

Come funzionino i secondi, dietro le quinte del check-in, più o meno ce lo possiamo immaginare: i tre scali del «polo del Nord Est» (Venezia-Treviso-Verona, cui per la verità andrebbe aggiunto Brescia) lo racconteranno e mostreranno un po’ più da vicino. Qualcosa che però normalmente non immaginiamo c’è. Avete presente quello che in aeronautica chiamano bird-strike, e che è poi il rischio di impatto contro gli uccelli in fase di decollo? Se il motore li «assorbe», i volatili, è un guaio. E non c’è tecnologia che tenga: andiamo nello spazio come si trattasse semplicemente di passeggiare, ma senza un falconiere (al Marco Polo, a Mestre, ci sarà) il problema non si risolve. Non con la stessa efficacia, almeno.

Con il porto è diverso. È fatto di tanti mondi, quasi tutti invisibili anche dal ponte di una nave da crociera. Arriviamo, sbarchiamo, e non abbiamo idea di quante persone e quanta tecnologia servano per la gestione dei viaggiatori, dei loro bagagli, della stessa nave. Idem (ma da moltiplicare, quanto a complessità) se dal terminal passeggeri si passa a quello per le merci.

Non a caso sono due dei quattro percorsi organizzati per Open Factory dall’Autorità portuale, che coordina il tutto: il porto vero e proprio, quello che tutti noi abbiamo in mente quando pensiamo a Venezia, i due scali (Venezia Terminal Passeggeri e il Multi Service di Marghera), la Venezia Heritage Tower, costruita nel 1938 come torre di raffreddamento e diventata, oggi, polo culturale «ponte» tra il passato dell’economia territoriale e il presente-futuro delle «trasformazioni permanenti». Qualche numero, a questo punto, per visualizzare di cosa parliamo quando diciamo «Porto di Venezia»: 1.200 imprese, 16 mila persone che ci lavorano, oltre due milioni di tonnellate di merci movimentate ogni anno. Una classica (quasi) company town.

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