
Le fabbriche sono state la culla delle nostre competenze manifatturiere. Se non ci fossero state, almeno una parte del nostro saper fare non si sarebbe mai sviluppato. La fabbrica diffusa è stata un tratto caratteristico del Nord Est, che ha trasformato questa parte dell’Italia in un autentico laboratorio a cielo aperto. Per lungo tempo, le (poche) grandi fabbriche sono state delle vere e proprie «scuole», che hanno sfornato frotte di operai qualificati, di tecnici, di quadri intermedi e di manager, che si sono poi riversati nel territorio circostante e lo hanno fecondato. La miriade di piccole fabbriche operose (a volte, poco più che botteghe) hanno dato sfogo al desiderio di mettersi in proprio, di sfidare il destino, di giocarsela. Nelle fabbriche si è espressa la voglia di riscatto sociale di intere generazioni, prima costrette ad emigrare da una terra avara di occasioni di lavoro. Nelle fabbriche, e non poteva essere altrimenti, si è anche consumato il legittimo conflitto sociale, che da noi però solo in pochi casi ha assunto i toni violenti e da muro contro muro visti in altre parti. Le fabbriche ci hanno dato da mangiare e ci hanno fatto diventare (chi più, chi meno) ricchi.
Poi, per una serie di cause tra loro indipendenti, il mito della fabbrica è caduto in disgrazia. Ne cito alcune, senza pretesa di esaustività. C’è stato chi ha gestito le fabbriche con un individualismo sfrenato e con un uso «disinvolto» delle risorse e dell’ambiente, creando talmente tanti «effetti indesiderati» (individuali e collettivi, materiali ed estetici) da alimentare una giusta disaffezione da parte della società e anche degli stessi lavoratori. C’è stata la concorrenza internazionale e la rincorsa dei Paesi emergenti, che sono diventati la nuova «fabbrica del mondo» e ci hanno tolto il terreno da sotto i piedi. C’è stata la miopia della nostra classe dirigente, sia politica che sociale, che ha progressivamente distolto le risorse dalle scuole tecniche e professionali e ha sistematicamente eroso l’appeal dei lavori manuali, soprattutto se svolti dentro le fabbriche.
A un certo punto, la musica è cambiata ed è iniziata la stagione della nuova narrazione della fabbrica. Sempre senza pretesa di esaustività, provo a elencare alcuni punti significativi di questo percorso di riabilitazione del mito perduto.
A ridosso della sbornia generata dalla bolla della new economy, Giuseppe Berta nel 2001 dava alle stampe “L’Italia delle fabbriche. Ascesa e declino dell’industrialismo nel Novecento”, e in apertura dell’ultimo paragrafo del libro scriveva testualmente che «nulla lascia credere che la prospettiva dell’Italia del ventunesimo secolo sia quella di un Paese senza più industria».
Passa qualche anno e nel 2007 Antonio Galdo ci propone “Fabbriche”, un volumetto denso di storie difabbriche straordinarie. Nell’introduzione, l’autore scrive che «attorno alle fabbriche, integrate nel territorio come gli alberi in un bosco, sono cresciute intere comunità. […] E quella tragica durezza della catena di montaggio, del caldo torrido di un altoforno, si ammorbidiva nella gratificazione di possedere un’identità. Anzi, di rivendicarla». E poi, per non farci mancare nulla, aggiunge che «il romanzo della fabbrica è una storia straordinaria. Di uomini separati dalla lotta di classe, dal profitto e dal salario: ma uniti dalla consapevolezza che il loro destino dipendeva dal successo di una partita giocata insieme».
Ancora un paio d’anni, e nel 2009 arriva “Orgoglio industriale. La scommessa italiana contro la crisi globale” di Antonio Calabrò. È un libro bellissimo, coinvolgente, solare, di cui mi piace ricordare il penultimo capitolo, che si intitola “La meno amata dagli italiani” (sottinteso: la fabbrica) e che si apre in questo modo: «lo sviluppo del sistema Paese […] continuerà a stare, in gran parte, nelle mani dell’industria manifatturiera. Ma gli italiani non lo sanno. E soprattutto, amano poco sentir parlare di fabbrica, lavoro meccanico, tute blu operaie, fatica. […] Tra i giovani, i giudizi sono ancora più netti: vogliono un impiego d’ufficio […] Sino all’estremo: “Meglio lavorare in un call center che in fabbrica”». Serve aggiungere altro?
A febbraio 2014, in libreria appare “Produzione intelligente. Un viaggio nelle nuove fabbriche” a firma ancora di Giuseppe Berta. Qui si completa il processo di riabilitazione della fabbrica, che diventa un luogo di lavoro solo lontano parente di quella del Novecento e che l’autore così riassume nelle ultime righe del primo capitolo: «le fabbriche e la popolazione lavorativa che le abita rimarranno anche nel nostro futuro, ma dovremo imparare a leggerle con categorie diverse rispetto a quelle del passato». Quello che dice Berta, oggi va sotto il nome di Fabbrica 4.0, ma la sostanza è la stessa.
E così arriviamo ai giorni nostri. Sulla scia di quanto esposto sopra, è più facile capire l’importanza e l’originalità di un’iniziativa come Open Factory. Non è un evento fine a se stesso, ma un tassello del più ampio tentativo di costruire la narrazione delle nuove fabbriche, che ci daranno da mangiare per i prossimi decenni. Sono fabbriche belle da vedere e da vivere. Sono fabbriche in cui le persone e la tecnologia sapranno trovare un giusto equilibrio. Sono fabbriche in cui le nuove generazioni esprimeranno tutto il loro talento. Viva le fabbriche!
* Professore ordinario di Organizzazione aziendale all’Università di Padova e direttore scientifico dell’Area Imprenditorialità di CUOA Business School